Il valore di una foto


Personaggi da ricordare

Nel mettere un po’ d’ordine nel mio enorme e disordinato archivio è spuntata all’improvviso una foto degli anni Sessanta.Tre personaggi che in quell’epoca erano un pò i pilastri della comunità italiana a Stoccolma, spuntando all’improvviso, hanno revocano ricordi di gioventù verificatisi in un periodo in cui la Svezia era ancora una terra vergine e Stoccolma paragonabile ad una città di provincia italiana. Era l’epoca in cui le nostre spiagge venivano frequentate da turisti nordici e dai vitelloni dell’epoca, abbronzati e senza cerimonie, conquistavano le bionde vichinghe non abituate ai complimenti e alla romanticheria dei “latin lowers”.  Stoccolma era considerata il paese di bengodi e molti giovani, malgrado le possibilità di poter ottenere un permesso di soggiorno, si avventuravano in queste latitudini per seguire le Birgitte, Karin ed Ingrid che avevano cosnosciuto in spiaggia.

La missione diplomatica italiana era guidata dall’Ambasciatore Capomazza di Campolattaro, che il regista Ingmar Bergman inserì in uno dei suoi film,credonel ”Settimo Sigillo” con il nome di marchese Macopazza. In Ambasciata era spesso ospite Alberto Sordiche girava “Il diavolo”.   Quando diede il Party d’addio a Stoccolma, la direttrice di un’ organizzazíone di indossatrici e fotomodelleorganizzò una sorpresa: quattro bellissime indossatrici sollevarono l’Ambasciatore e lo portarono in trionfo attraverso i saloni di Oakhill.

 Le orchestrine italiane godevano di una popolarità immensa nei night club e nelle balere erano decine i complessi che suonavano nei ritrovi svedesi. Ma ciò finì con l’avvento dei Beatles e i successi di Elvis! I ristoranti italiani a Stoccolma si contavano quasi sulle dita delle mani. Ma non era della vita in Svezia che dovevo scrivere, ma delle tre personalità presenti nella foto in questione. Sulla destra c’è il Vescovo di Stoccolma dell’epoca, Monsignor John Taylor: un americano cordiale e gentile con tutti che, con il suo sorriso schietto, conquistava la simpatia dei fedeli. Monsignor Taylor (1914-1976) fu nominato da Papa Giovanni XXIII mentre si trovava a Stoccolma e fu consacrato nel 1962 dall’Arcivescovo Bruno Bernard Heim, all’epoca Nunzio Apostolico delegato dei Pasi Scandinavi,  nel salone blu (Blåhallen) del palazzo municipale della capitale. La cerimonia, mai prima effettuata in Svezia, fu messa in onda dalla televisione svedese.

All’epoca in Svezia vi erano poco più di 30.000 cattolici e l’anno successivo, nel 1963, Monsignor Taylorinaugurò il Monastero delle suore Carmelitane a Glumslöv, in prossimità di Helsingborg: il primo dopo la riforma che causò un violento dibattito in Parlamento. Nel 1966 la televisione svedese mise in onda per la prima volta la messa cattolica dalla Chiesa di Santa Eugenia, che fu abbattuta per dare spazio all’odierna Sergel Torg e alla Gallerian, trasferita in seguito a Kungsträdgården.

Monsignor Taylor rimase in carica fino al 1973, anno in cui si dimise.

Alla sinistra del Vescovo vi è Mario Orano.

In più occasioni Mario Orano, all’epoca Console onorario d’Italia, nel cui ufficio a Sveavägen era sempre nascosto dietro pile di carte e raccoglitori sulla scrivania e sui mobili che lo circondavano. Si rivolgeva al CIS, il Club Italiano Stoccolma di cui ero presidente, perché si portasse qualcosa da mangiare a bordo di una nave sotto sequestro, non avendo l’equipaggio avuto il salario da mesi oppure a causa dei sigilli fatti apporre dai cantieri navali per il mancato pagamento, da parte dell’armatore, di riparazioni effettuate.

Colui che arrivava in Svezia, e verso la fine degli anni Cinquanta erano in tanti richiamati dal fascino delle ragazze bionde che affollavano le spiagge italiane, veniva accolto generalmente dal console Orano con bonaria rudezza. Il ritornello era sempre lo stesso: il nuovo arrivato si presentava al consolato per essere aiutato a cercare lavoro e il console lo esortava a rientrare in Italia. Credo che tutti coloro che sono venuti in Svezia in cerca di avventura – quelli che normalmente definisco emigrati per amore, – abbiano sentito le esortazioni di Orano: «Meglio pane e cipolle in casa propria, credetemi»!

Mario Orano, dicevamo, proveniva dal giornalismo. Era stato corrispondente da Helsinki dell’Agenzia Stefani durante la seconda guerra mondiale. Nella capitale finlandese a quell’epoca, insieme ad Orano, vi erano altri due corrispondenti di guerra italiani: Indro Montanelli e Curzio Malaparte che, ammalatosi, si trasferì a Stoccolma, ospite del envoyé e Ministro Giuseppe Renzetti, ove scrisse “Kaputt”, il libro che racconta la fine del secondo conflitto mondiale e che inizia appunto con la descrizione del parco di Oakhill, sede dell’Ambasciata d’Italia in Svezia.

Durante la permanenza a Helsinki, Mario Orano aveva incontrato Katja, una minuta e dolcissima finlandese che lo seguiva come un’ombra, amorevolmente, finché negli anni Settanta, il simpatico e gioviale “signor Consolato” – come lo chiamavo affettuosamente parodiando i magliari napoletani che l’ossequiavano in tal guisa – lasciò questa terra per passare a miglior vita.

Chi non ricorda le sue simpaticissime uscite in dialetto romanesco?

Di fronte al Vescovo c’è Padre Masiero.

Era arrivato in Svezia come una furia nel 1953 – mi disse un italiano in un’occasione.

Aveva 38 anni, temperamento genuino veneto, parlava gesticolando, a volte in modo quasi violento, sempre disponibile al dialogo ed era un vulcano di iniziative. Un giornalista italiano in un suo articolo da Stoccolma lo definì “il don Camillo della Svezia”. Fumava il sigaro e mi disse che faceva il vino con l’uva passita ed era buonissimo.

Un giorno mi raccontò che nel 1950 c’erano solo 460 italiani a Stoccolma, ma nel 1960 erano già 1.258. Andava a trovare gli italiani nel club di Nacka e di Gustavsberg, dove c’era una piccola ma attiva comunità italiana di ceramisti, provenienti per la maggior parte dal Lago Maggiore, che lavoravano nella fabbrica di ceramiche Gustavsberg.

In un occasione, avendomi sentito parlare svedese, mi chiese come avevo potuto impare la lingua così in fretta. Gli dissi che ero sì un terrun, come mi apostrofava, ma che avevo abitato per sette anni sulle Dolomiti bellunesi ed avevo imparato il tedesco.

Fu allora che mi disse che aveva studiato a Innsbruk e grazie al tedesco e alla volontà ferrea di imparare lo svedese, era riuscito a farsi intendere nella loro lingua. In quell’occasione mi regalò la sua “Grammatica elementare della lingua svedese”.

Puntualmente ogni mese arrivava il suo notiziario “Lavoro e Fede”. Nel 1968, nell’apprendere la mia decisione di lasciare la Svezia per l’Italia, mi disse: «Se passi per Roma in autunno vieni alla Cecchignola perchè mi è stata assegnata quella Parrocchia».

Angelo Tajani